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letture
00 Gennaio 2008 | in categoria/e letture
Chi nasce mulo bisogna che tira calci - Viaggio nella cultura tradizionale delle Quattro Province
Storie di muli, pifferai, ravioli e vino buono
Per questa volta non parliamo di politica, anche se il titolo (Chi nasce mulo bisogna che tira calci) potrebbe farlo supporre, ma di un bel libro scritto da Paolo Ferrari, Claudio Gnoli, Zulema Negro, Fabio Paveto, che ci trascina in un viaggio nella cultura tradizionale delle quattro province Alessandria, Genova, Piacenza e Pavia. L'incipit descrive perfettamente il profumo di quello che il lettore leggerà: "questo libro è dedicato a tutti i testimoni della civiltà montanara delle quattro provincie che ci hanno trasmesso memorie e conoscenze. E a tutti coloro che ancora abitano quassù, a tutti i camini accesi d'inverno, le fasce coltivate in mezzo alla selva, il boscaiolo che ha tutta la valle per lui, le ultime mucche del paese e i canti in un'osteria remota con il televisore acceso che nessuno guarda". A tratti Nostalgia canaglia, a tratti approfondimenti storici, a tratti interviste alle memorie storiche dei paesi. Ecco, se qualcosa colpisce di questo libro è immaginare gli autori abbarbicarsi per gli sperduti paesini a raccogliere interviste per tentare di assaporare i gusti di un tempo che ormai non c'è più. L'imponente lavoro di ricerca sulle quattro province mette in evidenza l'intreccio e la trasversalità dell'identità culturale di quest'area che coinvolge anche la Fontanabuona contaminando parte del Tigullio. Si passa così dall'esame di mulattiere e muli "il mulattiere faceva un po' di tutto era il postino, quello che portava le notizie, il commissioniere, ed era molto più conosciuto di chi faceva il contadino. Erano quello che andava nei paesi più riforniti. Viaggiavano e conoscevano più posti del contadino normale e avevano di conseguenza una mentalità più aperta" passando per i riti carnevaleschi tra Aveto e Scrivia e arrivando a descrivere le mitiche figure dei suonatori di paese. >Proprio a questo proposito gli autori si soffermano sui ricordi dei nomi più famosi. I pifferai erano spesso indicati, nei paesi dove andavano a suonare, semplicemente con il nome della località da cui venivano. "E' curioso che il Brigiotto (Paolo Pelle) avesse questo soprannome anche a Bruggi stesso (frazione del Comune di Fabbrica Curone nell'alessandrino), addirittura quando qualcuno lo chiamava con il nome di battesimo lui nemmeno si voltava, e rispondeva solo quando l'altro cambiava l'appellativo in Brigiotu per incoraggiarne l'uso e forse per l'orgoglio della notorietà che questo implicava....La forza di questo soprannome lo ha conservato fino ad oggi in Fontanabuona a molti chilometri di distanza, dove i pifferai si recavano regolarmente a suonare, in particolare nel comune di Uscio. Là addirittura i brigiotti sono i suonatori di piffero e musa tout court. Draghin invece, il pifferaio più antico di cui sia rimasta memoria tra i suonatori attuali, arriva attraverso questo soprannome con cui era identificato dalla gente ma nessuno ricorda il nome reale”. >In una versione delle sue gesta, il Draghin è arrestato a Cicagna e messo in prigione a Bobbio in quanto accusato di stregoneria, e per discolparsi chiede il legno per costruirsi da solo un piffero, dimostrando così che si tratta di un normale strumento artigianale e non di un oggetto diabolico. E' interessante che una delle spose provenga da Verzi, in Fontanabuona, molto vicino a Cicagna. In altre occasioni troviamo riferimenti a persone di Ognio, Favale di Malvaro, Lorsica, Priosa, Rezzoaglio, Orezzoli. Curato e appetitoso il capitolo finale intitolato "A Pulenta me cuntenta" dove vengono descritte le memorie della vita alimentare montanara. >Qui troviamo notizie molto curiose; ad esempio che i ravioli, nei pressi di Chiavari, si chiamano così perchè se fan de reo (si fanno di rado) ed è interessante leggere una sintentica ed efficace rima della vita montanara che racchiude il sapore di tutto il libro nel suo complesso: "A pulenta me cuntenta / I ravio i me tucu u co / Ei ven bon u me fa cantà / Ei pinfru dei Brigiottu u me fa balà" (La polenta mi accontenta / i ravioli mi toccano il cuore / Il vino buono mi fa cantare / Il piffero del Brigiotto mi fa ballare). Il libro chiude apparentemente con un luogo comune "era un altro mondo, non avevamo niente, ma eravamo più contenti" ma rivela in effetti una situazione di fatto, oltre che una percezione legata allo sguardo sempre un po' malinconico sugli anni della giovinezza, perchè il mondo contadino era innegabilmente caratterizzato da gravi carenze nel vissuto quotidiano ma conosceva momenti di convivialità e socialità che davano vita a espressioni culturali uniche. "I sapori del mangiare erano parte essenziale di questa sfera esperenziale, non diversamente dai suoni del piffero o della cornamusa, dai canti profani e liturgici, dal cioccare delle grillere dei muli, dall'odore del letame e dei prati sfalciati. Forse - chiudono gli autori - quel sapore è veramente irripetibile perchè manca oggi l'ingrediente essenziale di allora, ovvero la "fame"; questo libro, frutto di faticosa ricerca, contiene anche una ricca collezione di fotografie e mescola sapientemente gli ingredienti della storia con quelli della tradizione. Consigliato soprattutto a coloro che, ancora adesso, sono "affamati" del tempo che fu. align="right">Giansandro Rosasco
Fonte: Paolo Ferrari - Claudio Gnoli - Zulema Negro - Fabio Paveto-Musa Menussie de gea © Riproduzione vietata
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