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Sapevi che... si dice “Piantare in Nasso”?
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cultura, edizione cartacea, storia locale
di Vittorio Rosasco | 01 Febbraio 2009 | in categoria/e cultura edizione cartacea storia locale
RANGHINELLI - I miei scolari persi, per sempre nel mio cuore
Nel periodo natalizio ho ricevuto tante manifestazioni d’affetto, incontri, scritti, telefonate, ho rivisto ex alunni che non vedevo da anni, mettendo a repentaglio il mio…vecchio cuore. Ringrazio tutti. Mi sono nell’occasione venuti in mente i tanti, troppi alunni che ci hanno lasciati, giovani e giovanissimi e vorrei ricordarli ai compagni che hanno condiviso l’impegno, le ricerche, le conquiste, i giochi, i giorni sereni ed allegri e a quanti hanno loro voluto bene, raccontando fatti, caratteri e circostanze. Si potrà pensare che rievocandoli si rinnoverà il dolore sopito, ritengo invece che sia un ideale affettuoso abbraccio tra loro e noi.
Nel 1958 l’Ispettore Scolastico Decimo Galardi mi convocò per affidarmi un incarico “difficile ma soddisfacente” sono sue parole. Si trattava di insegnare nella Postelementare, una classe assolutamente nuova, senza precedenti, con alunni provenienti da molti paesi dell’alta Fontanabuona che, ottenuta la licenza elementare anche da tempo, non avevano proseguito negli studi pur essendo nell’obbligo scolastico. Ragazzi dai 12 ai 15 anni, di livello culturale molto diverso: alcuni intelligenti e svegli, altri assai deficitari non per colpa loro.
Feci resistenza soprattutto perché mi spiaceva lasciare i miei alunni di Neirone ma poi cedetti per l’insistenza dell’Ispettore e perchè la sfida mi attraeva. Non c’erano programmi, tutto era lasciato all’iniziativa dell’insegnante. Fu un anno bellissimo anche se faticoso: il lavoro doveva essere molto individualizzato.
Facemmo ricerche, molta grammatica, molta lettura, ritornammo allo studio delle tabelline e delle regole di geometria, abbiamo sperimentato la lettura e il commento dei racconti mensili del tanto vituperato libro “Cuore” constatando che i ragazzi si commuovevano, facevano osservazioni profonde e acute, rilevavano i valori veri, le virtù eroiche, il coraggio (certamente meglio dei moderni bullismi e delle imbrattature di muri e monumenti). Tentammo anche esercizi di calligrafia e ci dedicammo anche ad attività pratiche come curare l’orto (ricordo le belle fave, i piselli e l’insalata che regalavamo all’asilo infantile). Allevammo persino una piccola nidiata di pulcini. Era, insomma, una fucina di attività varie. Quando ebbi, senza preavviso, la visita del Provveditore agli Studi, dell’Ispettore Scolastico e del Direttore didattico (chi interrogava di italiano, storia, geografia, scienze, chi di aritmetica, chi guardava i quaderni!) venne riconosciuto, niente miracoli per carità, ma il buon livello raggiunto che dedussi anche dal lusinghiero verbale di visita e gratificato, a fine anno, di un sostanzioso premio.
In questo contesto tra gli alunni più grandi c’era Uberto Capestro, proveniente da Tasso di Lumarzo i cui occhi esprimevano da soli la gioia e la volontà di apprendere. Terminata la scuola lo incontrai una sola volta e dopo esserci salutati cordialmente e aver parlato del più e del meno si accomiatò dicendomi: “Maestro, devo dirle una cosa: per me l’anno di scuola è stato il più bello della mia vita. Lei è stato l’unico che mi ha veramente capito...” Poco tempo dopo ricevetti la notizia che era mancato. Mi sentii morire. Rosasco Celestino di Neirone era uno dei ragazzi più buoni e sensibili che io ricordi. Quando ci si incontrava, abbastanza frequentemente, chiacchieravamo cordialmente. Una volta lo vidi, scuro in volto, visibilmente sofferente ed io, come al solito quando c’era da stemperare la tensione dissi: “Che è successo, ti è morto il gatto?“Abbozzò un sorriso e mi confidò, come si confida ad un amico, una cocente delusione d’amore. Non ero la persona più adatta in simili circostanze ma cercai di consolarlo.
Non ne parlammo mai più e nei nostri incontri si parlava soprattutto di religione, di fede, di dubbi e di certezze.
Si sposò, ebbe dei figli ma un destino crudele ce lo portò via, giovanissimo. Anche Orietta Schiappacasse di Neirone era giovanissima, brillante, piena di vita, da poco aveva coronato il suo sogno d’amore. La sua scomparsa lasciò un’intera vallata, e non solo, nello sconforto più totale. Questi fatti, senza voler sindacare gli imperscrutabili disegni del destino, sono difficile da accettare e obbligano a delle riflessioni. Come il periodo che attraversai nel 1974: senza sapere come e perché, fui colpito da una grave forma di depressione.
Neanche la montagna che per me era sempre stata il toccasana alla fatica e allo stress, con i suoi paesaggi, i boschi, i funghi, i fiori, riuscì a mitigare quello stato così pesante. Solo chi ha provato può capire, avevo solo il desiderio di annientamento.
Si avvicinava l’inizio dell’anno scolastico e i medici consultati avevano idee opposte: chi diceva che lo stress della scuola avrebbe peggiorato la condizione, chi invece riteneva che il lavoro con i bambini mi avrebbe giovato. Decisi per la seconda soluzione. Non fu facile, e se riuscii a superare la malattia senza avere più ricadute (almeno due volte ho visto per altre cause…la “porticina”) lo devo certo alla forza di volontà, certo ai bravi medici, certo alla famiglia, ma certamente a quei ragazzi meravigliosi! Tra questi c’era Giancarlo Rossi, silenzioso e timido e Agostino Bacigalupo, intelligentissimo, un po’ il capoclasse anche se non ufficiale. Qualche volta, dopo una notte insonne, poggiavo la testa per qualche minuto sulla cattedra e sentivo Agostino che diceva: ”Sssss, il maestro riposa!”. Non lo posso dimenticare!
Ebbero entrambi un destino crudele. Quando guido la macchina normalmente sto molto attento e non mi lascio distrarre dai manifesti, ma un giorno andando verso Chiavari, l’occhio si posò di sfuggita su di un manifesto funebre e mi parve di leggere un nome conosciuto. Volli accertarmi e purtroppo era vero, Ornella Corsiglia era stata tumulata una settimana prima.
La ricordo bimba generosa, sempre pronta ad aiutare tutti. Nel museo Etnografico ci sono tanti oggetti col suo nome perché era una delle più attive amiche del Museo. Seppi poi che si era dedicata alla famiglia, facendo le veci della mamma perduta alla nonna ultracentenaria, ai fratelli. Non si può non ricordarla insieme a Sergio e Giovanni Basso, Elio De Barbieri e tutti gli altri con affetto infinito.
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