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    edizione cartacea, storia locale

    02 Aprile 2017 | in categoria/e edizione cartacea storia locale

    “IO C'ERO”: la vita di quei ragazzi prima e dopo il 25 aprile

    “IO C'ERO”: la vita di quei ragazzi prima e dopo il 25 aprile

    Il racconto del partigiano “Bengala”: fatto prigioniero il giorno dell'armistizio e portato in Germania, poi la fuga, il rientro a casa dopo 10 giorni di cammino e gli schiaffi per stare svegli

    Fughe, sofferenza, fame e tanta, tanta voglia di tornare a casa. La guerra potrebbe essere riassunta così, per tutti. Ma ognuno ha avuto la sua storia e ha vissuto la sua guerra: contro il fascismo, contro i voltagabbana o contro una parte di sé. Questo mese vi proponiamo la storia inedita, scritta di suo pugno, dal partigiano Nassano Edoardo, nome di battaglia “Bengala”, DIstaccamento Forca - Brigata Berto - Divisione Cichero.

    Fatti prigionieri dai nazisti proprio il giorno dell’armistizio
    “Il mio nome di battaglia è Bengala. A vent’anni di età fui chiamato alle armi, destinato a Pinerolo: dovevo in breve essere addestrato alla guerra per poi essere inviato a combattere in Russia con tanti altri commilitoni. Giunto l’8 Settembre 1943, cioè lo sfasciamento del fascismo (n.d.r. armistizio annunciato dal Governo Badoglio), non fu più possibile partire: il giorno prima il comandante della caserma ordinò di depositare tutte le armi nel magazzino, anche agli ufficiali. La mattina seguente ci accorgemmo di essere prigionieri, a disposizione dei tedeschi. Intorno alle 10:00 del mattino stesso giunse al di fuori della caserma un nostro comandante a bordo di un’auto tedesca, insieme ad alcuni ufficiali, tedeschi anche loro. Scendevano da un camion alcuni soldati in armi, ordinando alla nostra guardia di rientrare, disarmandola e vibrandole un calcio nel sedere. Altre guardie si posizionarono sui quattro angoli. Da quel momento capimmo che eravamo destinati in Germania.”


    Tornammo a casa in dieci, dopo dieci giorni di cammino:
    "per stare sveglio mi prendevo a schiaffi"

    “I nostri ufficiali erano tutti fuggiti, così decidemmo di fare altrettanto e scappammo. Ci riuscimmo soltanto in dieci, decisi a tornare a casa. Arrivai dopo dieci giorni, camminando giorno e notte, cibandomi una sola volta e schiaffeggiandomi continuamente per non addormentarmi. Ma a quel punto ero ricercato dai nazifascisti: se mi avessero visto i miei genitori sarebbero stati fucilati e la casa data alle fiamme. Senza lavorare e senza tessera per il pane decisi di arruolarmi volontario nel Comitato di Liberazione Nazionale”.

    La fame sui monti, poi la gioia di quel 25 aprile
    “Andai a Cichero, sul Ramaceto, dove trovai Bisagno, comandante dei partigiani della Sesta Zona Liguria con molti altri italiani, francesi, polacchi e tedeschi. Conobbi finalmente la libertà. Si parlava di repubblica, di uguaglianza, di avvenire. Tutto ciò avremmo dovuto conquistarcelo con tanti sacrifici: freddo, fame, sangue [...]”.  
    Sofferenze che durarono sino alla liberazione: “L’ordine di scendere dalla montagna ci giunse il 23 Aprile 1945. In quella data ci trovavamo in Val D’Aveto, ma partimmo subito per Torriglia, poi giungemmo alle fortificazioni che circondano le alture di Genova. Incontrammo molta resistenza e inviammo a parlamentare (con i Tedeschi n.d.r.) un sacerdote. Nessuna risposta: fu tenuto in ostaggio. Il comandante tedesco aveva deciso di far morire tutti i suoi soldati pur di non arrendersi. A quel punto i soldati decisero di sparare sul loro comandante e si arresero in massa”. “Catturati tedeschi e fascisti giungemmo nella Città di Genova il 25 Aprile 1945, provocando così l’insurrezione armata. Molte cose però restavano ancora da fare: salvare il porto, le strade, gli edifici pubblici: tutti minati dai tedeschi”. [...]
    *La sintassi Il testo originale è stata modificata in alcune parti per renderne più agevole la lettura, senza però modificarne il significato inteso dall’autore.

    Dalla divisa alla cava d'ardesia
    Dopo la guerra la vita riservò a “Bengala” ulteriori amare sorprese. Nel 1946 decise di arruolarsi nella Polizia di Stato. Non passò però inosservato il suo recente passato di partigiano, e dopo episodi strani, punizioni e minacce fu costretto al congedo. Un periodo nelle guardie giurate non lo portò a far pace con i suoi alti ideali di fedeltà alla Repubblica, e dopo diverse proposte per agevolare i colpi dei ladri (sempre rifiutate) decise di abbandonare definitivamente anche quella divisa. E, allora, dopo anni di vita militare scelse di diventare un semplice operaio ardesiaco, al servizio della sua terra, la stessa che anni prima aveva liberato dai nazifascisti. Ma la fatica e la sofferenza di quella guerra gli rimasero incollati al corpo e allo spirito, tanto che fino alla sua morte portò attaccato allo specchietto della sua auto un soldatino di pezza, ornato con uno dei suoi cimeli di guerra.


    Testimonianza della figlia di Edoardo, Orianna Nassano, in foto col libro di Ghilarducci donato dalla redazione.



     


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