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    storia locale

    05 Settembre 2023 | in categoria/e storia locale

    25 settembre 1915: quando un'alluvione creò la spiaggia di San fruttuoso

    25 settembre 1915: quando un'alluvione creò la spiaggia di San fruttuoso

    di Michela De Rosa

    Erano i primi anni del 1900, San Fruttuoso di Camogli era un borgo sperduto e quasi irraggiungibile, eppure animato da abitanti, panni stesi alle finestre del monastero utilizzato come abitazione e in riva al mare c’erano le reti dei pescatori. C’erano bambini e perfino una scuola nella torre dei Doria! C’era quindi una vita che oggi non c’è più, ma mancava qualcosa che oggi c’è: la spiaggia. L’acqua arrivava infatti fin sotto le arcate dell’Abbazia.

    Ecco come appariva l'Abbazia prima dell'alluvione: il mare entrava direttamente sotto le arcate, dove c'erano le rimesse delle barche e dei velieri

    Poi, nel 1915, cadde una quantità enorme di pioggia che trascinò a valle terra, pietre e detriti che portarono via il fronte della chiesa e pezzi di altri edifici. Così si è creata la spiaggia che vediamo oggi.


    Una delle immagini riportate in “Vie d’Italia” del 1924 che mostrano come appariva il borgo nove anni dopo l’alluvione del 1915

    Nel novembre 1924 la rivista “Le vie d’Italia” del Touring Club Italiano dedicò un lungo articolo a San Fruttuoso, col quale il giornalista Ulderico Tegani riporta la cronaca della vita nel borgo nove anni dopo quel catastrofico evento. E lo fa con quel linguaggio romanzato, a tratti epico, che ci riporta dritti dritti a un secolo fa, che quasi sembra di sentire la voce narrante dei film in bianco e nero. Ecco qualche stralcio di quella realtà che ora non c’è più.  


    La partenza e l’arrivo via mare

    Il giornalista inizia raccontando la partenza da Recco, accompagnato dalla minaccia di un temporale e dal marinaio Gelindo Costa “che porta molto bene sulle larghe spalle robuste ventisei anni di mare e percepisce a prima vista, ciò che sta scritto in quelle grandi pagine spalancate davanti agli occhi dei naviganti”. L’altro della comitiva è il cav. Tibaldo Beretta “che oltre all’essere un genovese autentico è ingegnere navale e figuriamoci un po’ se se n’intende!”.
    Superato Camogli “col suo minuscolo porto, il torrione, la spiaggia e lo scenario delle sue case che fa pensare a un gran favo per quella sua fitta geometria di finestre parallele” ecco il villaggio di San Rocco. Ed ecco che “il barcaiuolo Gelindo se ne ringalluzzisce: “Passòu o monte de Portofin, Addio moggé che son fantin!””. Appare poi il Monte di Portofino: “La stratificazione s’incide nella mossa capricciosamente, elaborata dai millenni, ma, a guardar bene, la roccia lascia scorgere una sua epidermide brulla di strane incrostazioni, come quella d’un croccante, e in quei tondini pallidi o giallognoli che fittamente la punteggiano s’indovinano i gusci fossilizzati di conchiglie marine. La storia favolosa del remoto mondo è scritta nel mistero di questi geroglifici naturali: questa puddinga è una pagina spalancata nel gran libro della Terra”.

    L’articolo prosegue: “La Punta del Buco ci conduce alla Cala dell’Oro, un’ampia insenatura nella quale ciò che d’aureo vi s’avventura vien còlto al varco dalle guardie di Finanza che hanno la loro casetta solinga presso il mare e certo s’aguzzan la vista con le pupille più acute del Semaforo che sta su in alto per guardar più lontano. A oriente c’è un’altra sentinella diritta, ma questa, cosi all’impiedi, dorme da gran tempo. È la torretta quadrangolare che nell’età di mezzo il Senato genovese eresse per vegliare su San Fruttuoso contro le rapaci scorrerie dei barbareschi”.
    La barca con i tre uomini prosegue e il giornalista continua il suo colorito racconto: “Ecco la visione del minuscolo golfo che la Punta Carèga delimita ad oriente. I due speroni la chiudono e la proteggono di valida guardia, questa insenatura piena di grazia in cui la montagna sembra essersi accartocciata in una piccola cappa, in una piega capricciosa e leggiadra, per comporre una nobile cornice al paesino germogliato d’incanto sulla breve riva. Tra il rigoglio della vegetazione che riveste i fianchi della conca, San Fruttuoso biancheggia squisito come il cammeo d’uno smeraldo, ed è verde il monte com’è verde il mare, tutto percorso da brividi cangianti. Un senso di dolce stupore ci prende allo spettacolo inatteso. E’ veramente una bella bocca che sorride, qui, tra il grifagno cipiglio che ci aveva tenuti sinora nell’incubo d’una minaccia torva, e l’animo riposa volentieri nel respiro di pace che si effonde dalla pittoresca visione”.

    L’approdo e la visita al paesello

    “Attracchiamo la barca, a uno spigolo di molo rudimentale, e via traverso la spiaggetta ove quattro o cinque barche verdi s’asciugano al sole. Non c’è nessuno in giro, tranne qualche ragazzo e alcune gallinelle che saltabeccano tra i sassi e la sabbia. Il paese sembra deserto, in questa frazioncina camogliese a cui l’ultimo censimento ha assegnato la spettacolosa popolazione di 102 abitanti: quasi tutti pescatori che se ne stanno umili e quieti nel loro guscio a terra, sul loro guscio in mare, e il prete di San Nicolo scavalca il monte la domenica per venire a dir la messa, e quando qualcuno muore - pare impossibile, in questo lembo di paradiso, ma talvolta succede! - lo caricano in una barca e lo portano a Camogli perché qui - serena filosofia della vita e della morte - non c’è nemmeno il camposanto”.

    Ed ecco che il cronista inizia a notare il rapporto tra gli umili abitanti del borgo e i suoi preziosi edifici. “Piegando a dritta c’inerpichiamo verso la torre. Oh no, essa non ha proprio più nulla di guerriero... poiché non è lo sparo di una colubrina che lo caccia fuori: è il fuoco dalla cucina. Ma sì: la vecchia torre dei Doria è diventata in alto una discreta abitazione moderno-borghese, e giù s’è allogata la scuola elementare pei fanciulli del borgo. La fortezza è scomparsa, son spariti i cannoni e non c’è più nemmeno un certo sarcofago romano che stava un tempo a pie’ della torre e adesso è in salvo altrove col suo prezioso bassorilievo. Ne avevano fatto un abbeveratoio e un lavatoio, i posteri irriverenti: quelli che, del resto, non ebbero scrupolo di deturpare la veneranda Badia, non solo ricoprendone di calce i bianchi marmi che Andrea Doria aveva restaurati nel 1529, ma invadendone le adiacenze, sacre alla religione, alla storia e all’arte, e aiutando la natura a infierire e ad aggravare, con l’abbandono e l’incuria, la rovina dì questo raro e glorioso retaggio millenario”.

    I danni dell’alluvione alla chiesa

    “Retrocediamo al bivio della sorgente montanina che fluisce al margine di un quadro desolato: l’antica chiesa romanica squarciata, mùtila e cadente. Sotto l’avancorpo del tempio passa il letto roccioso del torrente che ha la sua vita naturale nella fessura ripida e profonda del monte: parte di lassù, dall’orlo che ha il nome caratteristico di Pietre Strette, e per un pauroso cammino di cinquecento metri - che un sentiero proveniente dal Semaforo di Portofino attraversa a rompicollo - discende al mare. Il torrentello al presente è asciutto, ma quando si gonfia sono guai. Si gonfiò terribilmente nove anni fa, il 25 settembre del 1915, per un nubifragio che imperversò da Recco a Rapalllo e là volle undici vittime, quattro a Santa Margherita, tre a Camogli. A San Fruttuoso nessun morto, ma l’alluvione, giù per l’imbuto, premette al fondo, fece spaccare il passaggio della chiesa, e di questa travolse la facciata insieme con qualche casupola che le sorgeva a fianco.



    Povera vecchia chiesa, che disastro! E’ lì tuttora con la sua gran ferita scoperta e fa pena a vederla, così decrepita com’è. Hanno ricostruito il ponticello, hanno rifatto la scaletta d’accesso, han chiuso la navata con un enorme assito di legno grezzo in cui s’apre la porta: tamponi per tappare il marcio, non certo per risanar l’inferma ch’è tutta una cancrena e non si sa bene come stia ancora in piedi. Ciò che ha perduto è poca cosa, in confronto di ciò che può perdere in un avvenire imprecisabile. Basta entrare per veder la minaccia che incombe sullo sciagurato edificio. Scomparso l’avancorpo, ci si trova subito nel centro della navata, sotto la cupola della torretta, ed è stupefacente osservare come questa, insieme al tetto della chiesa, si sorregga su quattro pilastri che nel salire dalla base divergono sempre più, per modo che un altro po’ che si pieghino, addio cupola e tetto, e chi ci si trovasse sotto, così come siamo adesso noi col naso in aria, ci resterebbe in trappola. Bimbi e galline razzolano attorno al tempio agonizzante, come in attesa di razzolare sulle sue macerie, il dì della rovina definitiva che non può essere molto lontana. Addio, monumento nazionale”. (...)


    ...e al sepolcro dei Doria

    “C’è una scaletta, di fianco, che conduce alla canonica vuota e al convento da cui furono sloggiati i monaci di Francia che vi si erano insediati nel 1878 e per diciotto mesi vi tennero una lor colonia non precisamente modello. La loggia è ingombra di reti e di remi, di barili d’acciughe e d’altre olezzanti meraviglie adunate fra gli archi e le colonne dalla famiglia di pescatori che ha in custodia il venerando cenobio e ne ha fatto la sua casa e il suo magazzino. (...). Brava gente alla buona, che non sa nulla di nulla, innocente come l’acqua sorgiva che zampilla fuori, e che non pensa di far male alcuno a profittar del posto e dell’abbandono in cui è lasciato. Una donnona grassa, placida e ignara, piglia le chiavi e ci accompagna a un cancelletto rugginoso che s’apre da un lato del chiostrino, ma appena ha aperto ella preferisce tornare ai suoi polli ed è con la guida d’una bimbetta scalza, e soprattutto della sua candela, che noi penetriamo, curiosi e un po’ commossi, nel sepolcreto dei Doria.



    In un angolo, fra tante lapidi di baldi principi, s’è insinuata quella d’una popolana eroica: Maria Avegno, sposa e madre, la quale, il 24 aprile 1855, generosamente accorsa con una barca verso un bastimento in fiamme che cercava salvezza nella baia - il Croesus, navigante con truppe piemontesi per la Crimea -, affondò con l’affondar del bastimento, la cui carcassa, nei giorni sereni e calmi, è tuttora visibile nel mare. La lapide, murata sulla casetta dell’eroina, ne fu insieme travolta dall’alluvione dal 1915, e allora la misero nella cripta. Anche qui, per quel flagello, si rovesciarono le acque e il sepolcreto ne fu colmo sin presso la volta così che il segno v’è rimasto, e le tombe, percosse e scoperchiate, n’ebbero grave danno. Al restauro attesero scalpellini fatti venir da Genova e le tombe tornarono a posto”.


    Già allora meta di turisti stranieri

    La bimbetta scalza spegne la sua candela e noi risaliamo passando alla Osteria Unica ch’è un’altra curiosità del sito. E’ rustica come di più non si potrebbe desiderare: vecchissima, sgangherata, buffa, con le sue grondaie attraverso la facciata, e un’aria di me ne impipo che consola. Ma ha una terrazzina con l’ombra verde e fiorita d’una pergola, le fanno sfondo alcune palme dritte con il loro pennacchio sul pendio, e dentro ci son cinque o sei camere da letto abbaglianti del candor di calce, come celle conventuali, e c’è una gran cucina luccicante di rami in cui certe vecchiette linde e certe giovami fiorenti apprestano le lasagne col pesto, specialità del luogo. Tutto questo attira le comitive in escursione e magari le trattiene felici nella fresca semplicità del romitaggio. Aria buona, panorama superbo, vitto e alloggio, signori si fa pensione! E i pellegrini accorrono d’ogni parte: dall’estero soprattutto. Ce n’è appunto un gruppo che ci sta da qualche settimana: sei norvegesi biondi e rosei, non sazi dei loro fiordi né di queste lasagne. Son già a tavola, sulla terrazza ombrosa, e mangiano allegri a piene ganasce. No, essi certo non pensano alla Badia millenaria che va in rovina, né al sepolcreto patrizio che rischia di tenerle dietro; quel sepolcreto che, a parte i nomi universalmente sonori dei morti, se ne avessero uno simile a casa loro chi sa che saghe squisite e che devoto e geloso amore, cari poeti di Scandinavia!”.

    Il giornalista sarebbe contento di vedere che il sito è tornato al suo antico splendore, grazie all’attività del FAI.




    UN PO' DI STORIA

    Nell’VIII secolo d.C., proprio la sua inaccessibilità e la presenza di una sorgente d’acqua dolce fecero di questo luogo, un sito ideale per la fondazione di una chiesa. Secondo la tradizione, fu lo stesso martire Fruttuoso a scegliere la baia, indicandola in sogno a Prospero, vescovo di Tarragona in fuga dalla Spagna invasa dagli Arabi e alla ricerca di un luogo dove portare in salvo le reliquie del Santo. Ricostruita nel X Secolo come monastero benedettino, dal Duecento l’Abbazia intrecciò le sue sorti con quelle della famiglia Doria che ne modificò l’assetto, costruendo ad esempio il loggiato a due ordini di trifore e trasferendo qui il sepolcreto familiare, fino a quando, nel 1983, decise di donare l’intero complesso al FAI. Da allora è in corso la rinascita di questo complesso articolato su corpi con caratteristiche molto diverse fra loro e tanto bisognoso di cure costanti e che nell’aprile del 2017 ha visto concludersi gli ultimi restauri che hanno liberato e valorizzato la fonte sorgiva su cui venne costruita la torre nolare. Il monastero, con il suo chiostro e le tombe Doria, la chiesa primitiva e la parrocchiale, i reperti archeologici e il piccolo borgo, vale una visita per scoprire l’anima autentica di questo luogo lambito da uno mare cristallino spettacolare, che offre al visitatore anche l’inedita possibilità di soggiornare nella Residenza di charme del Bene, ideale per chi cerca un’insolita fuga dal mondo. (Fonte: FAI Fondo Ambientale Italiano)


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