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storia locale
08 Novembre 2023 | in categoria/e storia locale
DALLA GIACCA ALLA ZAPPA - Noi contadini di ritorno
Sono professionisti e lavorano in città, poi si trasformano in agricoltori per ridare vita a quelle terre abbandonate dai nonni
Daniele Balletto, 35 anni, è docente di Diritto penale a Genova; poi si trasforma in contadino tra i terreni dei nonni a Tassorello di Lumarzo. Inizia da lui il nostro viaggio alla scoperta dei “contadini di ritorno”
- Cosa l’ha portata nell’entroterra e a dedicarsi alla coltivazione?
Si è trattato di un ritorno alle origini: quando avevo pochi mesi i miei genitori sono venuti a vivere a Tassorello, frazione di Lumarzo, per essere più vicini ai miei nonni. Ho iniziato a fare il contadino grazie a mio nonno: si chiamava Bruno, conosceva la propria terra a menadito, custode di un sapere antico. Quando si è ammalato e – con suo grande dolore – non ha più avuto le forze per lavorare la terra, è sorto spontaneo in me il desiderio di raccogliere la sua eredità. Così, inizialmente aiutato dalla nonna, sono diventato un contadino a mia insaputa. Ho messo su il mio primo orto quando non avevo ancora vent’anni e non mi sono più fermato.
- Qual è l’aspetto del suo lavoro che più le dà soddisfazione e quale quello legato alla terra. Ci sono degli aspetti similari?
Del mio lavoro di docente amo l’idea di educare alla complessità, all’andare al di là di slogan e frasi fatte: una straordinaria “palestra” intellettuale che obbliga alla puntualità lessicale, un antidoto potentissimo al pressapochismo. Quanto al mio “lavoro di contadino”, prendo a prestito le parole di Dario Ferrari nel romanzo La ricreazione è finita: «la vita di campagna [gli] andava decisamente a genio. Gli piacevano i ritmi lenti, i vuoti, le attese, la fatica, e quella sensazione […] di essere in grado di produrre qualcosa: erano solo carote, cipolle e pomodori, e però quelle carote, quelle cipolle e quei pomodori prima non esistevano, e non sarebbero esistiti senza il suo lavoro e le sue cure». Credo che esista un’affinità intima tra i due: fare cultura è, in qualche modo, coltivare qualcosa, lanciare un seme nella speranza che un giorno produca frutti.
- Quanto tempo dedica alla settimana alla coltivazione, qual è quella che le riesce meglio e quale peggio?
Non lo so, ma è molto, soprattutto tra l’estate e l’autunno, quando l’orto è nel pieno della produttività. Devo dire che mi riescono bene tutte le principali coltivazioni: sono un contadino moderno, leggo manuali, seguo canali YouTube e mi confronto con gli amici “ortisti”. Dovendo proprio sceglierne una, direi le patate: Tassorello è sempre stato terra da patate, ho avuto un raccolto abbondante e di buona pezzatura persino l’anno scorso, nonostante la siccità. Quella con cui sto facendo una gran fatica sono, invece, gli spinaci: i cambiamenti climatici sono una realtà e così può capitare che, benché seminati in un periodo teoricamente corretto, un’ondata di calore anomalo come quella degli ultimi mesi li faccia montare precocemente a seme, guastando il raccolto. Pazienza: riproverò!
- Oggi c’è un richiamo e un ritorno alla terra sempre più forte. Se lei potesse “mollerebbe tutto” per dedicarsi all’agricoltura?
Voglio essere sincero: no, e mi spiego. Oltre il lato poetico insito nell’immaginario di un’esistenza bucolica, la vita di un agricoltore professionale è tutt’altro che rose e fiori, non tanto per i suoi ritmi e la fatica, che non mi spaventano, quanto per le mille variabili imposte da un clima sempre più imprevedibile e in ragione di un sistema economico che non premia il produttore, anzi. Preferisco, pertanto, rimanere un contadino per autoproduzione.
- I giovanissimi, detti nativi digitali, hanno una simbiosi con la tecnologia e sembrano lontani dalla terra”. Pensa che sia vero o è un luogo comune?
Penso che sarebbe un bene per tutti se uscissimo al più presto dalla divisione tra “tecnologia” e “terra”. In rete seguo diversi giovani, molto competenti e dotati di capacità comunicative. Ho molta fiducia nelle potenzialità dei ragazzi e ritenego che le tecnologie applicate a finalità positive non possano che apportare progresso in una società che – per come ci è stata consegnata – non mi pare il migliore dei mondi possibili.
- Ci indichi un progetto o un sogno legato alla terra
Io e mio padre abbiamo da tempo un progetto in cantiere: recuperare un vasto terreno di famiglia impiantandovi un frutteto. Ho l’impressione che un frutteto, molto più di un orto, sia una promessa per il futuro: è bello pensare che resterà qualcuno a trarre vita da quella pianta, anche quando il mondo al completo si sarà dimenticato di noi.
- Si faccia una domanda e si dia una risposta.
Perché nel 2023 ci si stupisce che un insegnante o un professionista scelgano di coltivare la terra? Perché viviamo in una società ancorata al classismo, dove è normale che per insultare qualcuno e dargli del buono a nulla gli si dica: “Vai a zappare!”. Eppure, ogni lavoro ben fatto, qualsiasi lavoro, manuale o intellettuale, ha pari dignità ed è di per sé capace di arricchire e appagare l’uomo. Nella mia esperienza, fare l’orto è un modo per non perdere il contatto con le cose concrete.
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