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salute
02 Febbraio 2019 | in categoria/e attualita benessere edizione cartacea salute
Chiudersi in casa per fuggire dalla vita reale: Hikikomori, un fenomeno in crescita
Fa notizia in questi giorni il caso unico e sconvolgente di un’intera famiglia scoperta in Puglia
Non riescono a reggere il peso della pressione di un mondo troppo competitivo e stressante, e allora decidono di scendere dalla giostra di una vita che gira troppo veloce e di ritirarsi: si chiudono in casa, nella loro stanza, e non ne escono per anni. Sono gli Hikikomori, una parola che suona lontana, ma che potrebbe raccontare la sofferenza di figli, fratelli, amici. Letteralmente il termine, coniato in Giappone dove il fenomeno ha maggiore diffusione, significa “stare in disparte, isolarsi”. Un fenomeno in crescita: nel 2015 il governo nipponico ne aveva registrati 540 mila tra i 15 e i 30 anni ma ha deciso di estendere l’età per la rilevazione perché si sono moltiplicate le segnalazioni di hikikomori nella generazione dei cinquantenni.

INTERA FAMIGLIA HIKIKOMORI:
IN ITALIA UN CASO SCONVOLGENTE
Arriva a fine gennaio come un fulmine a ciel sereno la notizia di un’intera famiglia italiana “hikikomori”: auto segregati in casa per due anni e connessi all’esterno solo attraverso Internet. Una dipendenza patologica che nel Salento ha coinvolto i genitori quarantenni e i figli di 15 e 9 anni. Quest’ultima è stata l’unica che, malgrado fosse trascurata dai genitori, ha sempre frequentato la scuola e nel tragitto comprava il “cibo” per tutti, composto solo da merendine, biscotti e caramelle. Per due anni nessuno si è accorto della sofferenza della bambina finché il suo aspetto trasandato ha attirato l’attenzione degli insegnanti e quindi degli assistenti sociali. Una volta entrati in casa si è presentata una scena raccappricciante: il ragazzo non riusciva più a camminare e tutti vivevano in condizioni igieniche e di salute al limite della sopravvivenza. Un caso unico che vede due adulti in una dinamica prevalentemente adolescenziale, con il coninvolgimento di tutta la famiglia. Cos’è successo? Ci sono sicuramente state circostanze particolari che hanno generato questo caso estremo: dalle prime ipotesi potrebbe aver influito il fatto che abbiano avuto il primo figlio da giovani e che vivessero in una zona rurale senza contatti con il mondo. Ma di sicuro i due adulti sono preda di una psicosi e la dipendenza da Internet è solo un modo per dare sfogo a un disagio preesistente. La dipendenza da internet e il ritiro sociale sono di solito espressione di malesseri più profondi, ma richiedono un approccio terapeutico specifico perché presentano complicazioni particolari.

LA VITA VIRTUALE COME RIFUGIO
Seppure è in aumento l’età del fenomeno, il disagio riguarda soprattutto gli adolescenti per i quali i videogiochi o il semplice uso di internet diventano una “vita alternativa“ più semplice e sostenibile, un vero e proprio rifugio in cui sentirsi al sicuro da un mondo troppo complesso. Come racconta lo psichiatra genovese Sergio Mungo “Inizialmente si prediligono giochi e attività di interazione, che diano la possibilità di mantenere dei contatti pur virtualmente, ma con l’incedere del disturbo anche questi vengono abbandonati per attività in solitaria”.
L’iperconnessione di per sé non sarebbe un problema: è normale che un ragazzino utilizzi la Rete, è uno strumento dei suoi tempi. I segnali di allarme ci sono quando comincia a non uscire di casa e si dimentica dei bisogni primari come sonno, fame, pulizia e relazioni sociali. Ma anche in questo caso, spesso si scopre che Internet va a colmare un vuoto, magari l’assenza emotiva dei genitori. Quindi togliere le tecnologie ai figli non è utile, mentre lo è verificare che non siano sostituti della vostra presenza. Perché tra lavoro al computer e smartphone, anche i genitori oggi possono contribure all’alienazione.
COSA FARE: ANZITUTTO CAPIRE

E se la situazione è già manifesta? Le modalità di intervento prevedono visite domiciliari ed utilizzano il linguaggio virtuale proprio di questi adolescenti. Ma soprattutto, come spiega il dott. Mungo “La famiglia deve essere partecipe nella terapia. I genitori non devono lanciare messaggi ambivalenti, è importante che siano rassicuranti e socializzanti”. Allo stesso tempo, chiude la Dott.ssa Arcellaschi “dobbiamo tenere conto del fatto che questa problematica insorge spesso in età adolescenziale ed è importante che vi sia un’osservazione prudente e delicata, per evitare di etichettare quella che potrebbe essere solo una turbolenza adolescenziale”. Insomma, ascolto e attenzione sono sempre la miglior prevenzione e cura.
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