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    cultura

    00 Aprile 2007 | in categoria/e cultura

    Quando per Pasqua si coltivava il leme, si legavano le campane e ci si lavava gli occhi nel fiume

    Quando per Pasqua si coltivava il leme, si legavano le campane e ci si lavava gli occhi nel fiume

    La Settimana Santa della mia fanciullezza era caratterizzata da significative cerimonie che si svolgevano in chiesa con larga partecipazione di popolo e da  consuetudini curiose. Il Mercoledì Santo, al pomeriggio, venivano portate in chiesa le piante più belle, meglio se fiorite, che ciascuna famiglia coltivava durante l’anno con lo scopo precipuo di adornare quello che veniva e viene impropriamente chiamato “Sepolcro”, e che in realtà è l’esaltazione della Eucarestia. Particolari erano  le coltivazioni in vasi o cassette del “leme”: cicerchia, grano, segala, granoturco. Questa coltivazione veniva effettuata nelle cantine perché le piantine dovevano crescere al buio più totale. Il risultato era una cascata fluente di biondi filamenti che creavano un effetto spettacolare. I nemici di queste coltivazioni erano, naturalmente i topi per cui le cassette necessitavano di attenta protezione. Poteva succedere di trovare distrutto, in una notte, il lavoro di settimane se, durante la frequente annaffiatura, distrattamente, non venivano adottate le opportune precauzioni. Il Giovedì Santo c’era la visita a quello chiamato Sepolcro. C’era una specie di competizione fra le parrocchie della valle per costruire il Sepolcro più grande, più bello, con più fiori e ceri, offerti dai fedeli. Si diceva che chi ne visitasse tre e avesse recitato alcune preghiere avrebbe acquisito delle indulgenze. In tal senso vi racconto la gita che feci con un gruppo di amici, tanti anni fa. L’idea era quella di raggiungere Tribogna, scendere a Ferrada e tornare a Gattorna. Era una splendida giornata di primavera, partimmo dai Bassi  inerpicandoci lungo il sentiero boschivo. Ad un certo punto c’era un bivio: a destra la “strada dei morti” cosiddetta perché veniva percorsa in occasione dei cortei funebri dai Bassi. Era un tragitto  lungo, ma agevole. Sulla sinistra la “strada dei cerri”, molto più breve, ma ripida e sconnessa che aveva preso il nome dagli imponenti alberi di cerro che svettavano in un bel pianoro (era frequente dare nomi a località derivanti da alberi, come “Pian del pero” a Neirone). A quel punto alcuni vollero prendere la strada più facile e arrivarono a Tribogna con notevole ritardo e fu proposto di andare a Serra e scendere a Cicagna: era lì, davanti a noi, a pochi passi… La proposta fu accettata e anche se non erano proprio due passi, i sentieri erano ben visibili perché i boschi erano tenuti puliti per facilitare la raccolta delle castagne, la foglia secca veniva raccolta come strame per fare il letto alle mucche che quasi tutti possedevano. Scendemmo a Cicagna quindi a Gattorna. Eravamo stanchi, ma felici e forse avremo acquisito anche le indulgenze (almeno ce le saremmo meritate). Il Venerdì Santo, giorno della morte del Cristo, venivano “legate” le campane a sostituire le quali,  per far conoscere l’orario della “Messa secca”, cioè senza la consacrazione dell’ostia, noi ragazzi si andava per sentieri e strade di campagna con la “batuela”, una tavola con in alto una impugnatura e infisse ai lati due maniglie mobili. La rotazione rapida della mano faceva battere violentemente le maniglie sulla tavola creando un rumore infernale. In alcune parrocchie usavano la “batandella” cioè la raganella, strumento di legno fatto d’una girella dentata mobile, che quando si faceva girare su se stessa produceva un suono altrettanto rumoroso simile al gracidare delle rane e che, si diceva, facesse scappare i giudei. Ce la contendevamo, la batuela (o battagioa, come la chiamavano noi ) e si faceva una grande confusione. Qualcuno andava a …”rubare” le  cipolline novelle… Poi veniva il mezzogiorno del sabato, l’ora della Resurrezione di Cristo, le campane suonavano a festa. Noi ragazzini si correva verso il fiume precedendo le donne per andare a lavarsi gli occhi, modo salutare per mettersi al riparo da eventuali malattie agli occhi. Per avere effetto, l’acqua doveva essere corrente, ma allora l’acqua nelle case l’avevano in pochi…per questo si andava nella corrente del fiume. Ricordo bene anche un altro  rito che compiva mio padre: “legava” le piante da frutta fiorite con fili d’erba intrecciate perchè, si credeva, la pianta avrebbe tenuto i fiori e quindi i frutti. A Pasqua neanche si sognava l’uovo di cioccolato, solo uova sode colorate. Mia madre faceva un dolce buonissimo che noi aspettavamo con ansia...ecco la ricetta.                                                   LATTE DOLCE Un litro di latte, 4 rossi d’uovo sbattute nel latte freddo, unire un quarto di zucchero e far cuocere bene mescolando sempre. Sciogliere un po’ di farina in un po’ di latte, mescolare il tutto e far cuocere bene sempre mescolando. Lasciare raffreddare, tagliare a pezzetti, impanarlo e friggerlo. E’ veramente buono. Provate! 


     


    I commenti dei lettori
    AlbertoMaria Colonna:

    Anche mia mamma mi raccontava il fatto di lavarsi gli occhi


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