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    attualita, edizione cartacea

    di Luca Bagnasco | 07 Febbraio 2014 | in categoria/e attualita edizione cartacea

    E' originario della Fontanabuona il Presidente più umile e stimato del mondo

    E' originario della Fontanabuona il Presidente più umile e stimato del mondo

    Il Presidente dell’Uruguay ha lasciato il palazzo ai poveri e vive in una fattoria, viaggia sulla sua vecchia auto e devolve il 90% del suo stipendio in beneficenza


    Vive in una piccola fattoria alla periferia di Montevideo, senza acqua corrente ma con un pozzo, insieme alla moglie e al suo cane. Non indossa mai la cravatta, i suoi abiti sono vissuti ma allo stesso tempo ordinati, ed appare sempre un po' spettinato. Se all'entrata non ci fossero due poliziotti che sorvegliano l'abitazione potremmo pensare ad un qualsiasi contadino. Invece, Josè “Pepe” Mujica è il Presidente dell'Uruguay. In queste caratteristiche così agresti, così votate all’essenziale e al rifiuto di ogni “fronzolo” si riconosce netta l’impronta fontanina, quella delle tante famiglie emigrate in Sud America a cercare una vita migliore. E infatti il Presidente Mujica è nato a Montevideo nel 1935 da Demetro Mujica, di origine basca, e Lucia Cordano (o Cordaro, forse per una trascrizione errata del cognome), figlia di una famiglia di emigranti provenienti proprio dalla Val Fontanabuona, come confermato da molte fonti. Non può che salire un moto d’orgoglio non solo ai fontanini ma a tutti i liguri per aver dato origini a quello che oggi è senza dubbio l'esempio più brillante e rispettabile di leader di un paese che, in tempo di austerità, è il primo a dare il buon esempio evitando sprechi e lussi di qualsiasi tipo. Il Presidente Josè Mujica adotta uno stile di vita ben differente da quello del resto dei grandi leader mondiali: ha rifiutato di vivere nel palazzo presidenziale lasciandolo ai senza tetto, non ha auto blu ma si sposta con il suo fedele maggiolone degli anni '70, vola in classe economica e dona circa il 90% del suo stipendio presidenziale al Fondo Raúl Sendic che aiuta lo sviluppo delle zone più povere dell’Uruguay attraverso la costruzione di abitazioni con acqua e luce. Dei circa 12.000 dollari mensili che riceve come stipendio (una cifra già di per sè irrisoria se paragonata a quella percepita dal nostro Presidente) ne trattiene solo 1.200 per sé (meno di 900 euro); e gli devono bastare, come lui ha dichiarato, perché “ci sono molte persone in Uruguay che vivono con molto meno.” Ciò che colpisce del presidente uruguaiano discendente da emigrati della Val Fontanabuona è la volontà di guidare una nazione con l'esempio, ponendosi per primo contro disuguaglianza sociale e povertà, avvicinandosi così ai reali problemi della popolazione.

    Guerrigliero sotto la dittatura di Jorge Pacheco Areco, Mujica fu leader della corrente di liberazione Tupamaros e per questo fu imprigionato nel terribile carcere militare di Punta Carretas per 15 anni, alcuni dei quali passati in completo isolamento, fino all'amnistia nel 1985. Nel 2010 ha stravinto le presidenziali con il Movimento de participación popular (Mpp) e da allora ha guadagnato consensi in tutto il mondo per il suo carisma e il suo stile di vita, denunciando il consumo eccessivo e spingendo sulle politiche per i diritti umani, portando l'Uruguay ad essere il paese più socialmente liberale di tutta l'America Latina. Per questo stile di vita, umile ma dignitoso, che mal riesce a gran parte dei politici, è stato soprannominato “il presidente più povero del mondo”, ma lui non è d'accordo con questo termine. Il Presidente “fontanino”, infatti, come ha lui stesso dichiarato, sostiene di non sentirsi affatto povero: “i poveri sono quelli che lavorano solo per cercare di mantenere uno stile di vita costoso, e che vogliono sempre di più e di più. È una questione di libertà. Se non hai molte cose non devi vivere tutta la vita come uno schiavo per mantenerle, e di conseguenza hai più tempo per te stesso”.
    Un pensiero simile il Presidente Mujica lo condivise anche in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile Rio+20, il 21 giugno 2012, nel quale con un toccante intervento ha espresso un'opinione decisa contro il consumismo sconsiderato e contro la “cieca ossessione” di raggiungere la crescita dei paesi attraverso un sempre maggior consumo. “Per tutta la sera si è parlato di sviluppo sostenibile, di tirare fuori masse immense dalla povertà. Ma a cosa stiamo pensando? Mi domando cosa succederebbe a questo pianeta se gli Indiani avessero la stessa proporzione di automobili per famiglia che hanno i tedeschi. Quanto ossigeno ci resterebbe per poter respirare? Il mondo oggi ha gli elementi materiali per rendere possibile che sette, otto miliardi di persone possano avere lo stesso grado di consumo e di spreco che hanno le più opulente società occidentali? ” Chiede Mujica. “Noi veniamo alla vita cercando di essere felici. Perchè la vita è corta e fugge in fretta. E nessun bene vale quanto la vita, questo è elementare. Però la vita sfugge, lavorando e lavorando per consumare. Perché in definitiva, se si paralizza il consum si ferma l'economia. E se si ferma l'economia arriva il fantasma della stagnazione. Però è un iper-consumo che sta aggredendo il pianeta. E questo iper-consumo deve generare, a sua volta, cose che durano poco, perché si deve vendere tanto!  [...] E siamo in un circolo vizioso! [...] I pensatori antichi, Epicuro, Seneca, gli Aymara, dicevano che povero non è chi possiede poco, ma veramente povero è chi necessita infinitamente molto e desidera tanto, e desidera sempre di più.”
    Chiaramente, anche il Presidente Mujica, nonostante le sue qualità, deve fare i conti con alcune scelte che non sono state particolarmente gradite dal popolo uruguaiano. Il Congresso dell'Uruguay ha approvato nel 2012 una legge che rende legale l'aborto per le gravidanze fino a dodici settimane, come in Italia; in dicembre 2013 invece, ha firmato una legge a favore della liberalizzazione della cannabis ponendola quindi sotto monopolio da parte dello Stato, sostenendo che “il consumo di marijuana non è preoccupante. Il narcotraffico è il reale problema”. Nonostante questo, non teme per la sua popolarità. Infatti sembra non avere intenzione di ricandidarsi per le elezioni presidenziali del 2014, vista l'età avanzata. Persino questa, per quanto banale possa sembrare, è una decisione che pare impensabile per i nostri politici.



    Tratto da CORFOLE! del 2/2014, con 25.000 copie gratuite: la testata più diffusa del Levante © Riproduzione vietata


     


    I commenti dei lettori
    :


    Ammiro la coerenza di un uomo , la di lui modestia, non la sua ideologia che ha trasformato la Svizzera dell' America Latina in Paese di disperati , privi punti di riferimento , privati della propria cultura .

    Ho letto un articolo di Pietro Gheddo che vi faccio conoscere .

    "Uno dei peggiori mali fisici, psichici e sociali che oggi affliggono i popoli evoluti e ricchi, è la droga, tutte le droghe, che aumentano artificialmente le potenzialità psichiche e fisiche dell’uomo, ma ne distruggono il sistema neuro-vegetativo riducendo a poco a poco il drogato ad una larva d’uomo. La lotta contro la droga e gli spacciatori di droghe è una delle priorità di tutti i governi. L’Uruguay entrerà presto nel “Guinnes” dei primati, poiché è il primo governo della storia a liberalizzare le “droghe leggere”. Il presidente dell’Uruguay, Josè Mujica, ha spiegato perché sostiene e approva questa riforma: il proibizionismo e la lotta senza quartiere a livello continentale e mondiale contro il commercio delle droghe non sono riusciti a estirpare questo “vizio sociale”. Occorre combattere le droghe legalizzandone l’uso e statalizzando la distribuzione regolamentata di “droghe leggere”. Alle persona con più di 18 anni sono permesse al massimo 40 sigarette di marijuana al mese, i consumatori che superano tale quantità saranno costretti a sottoporsi a trattamento riabilitativo.

    La nuova legge è approvata solo dal 38% e condannata dal 62% degli uruguayani, ma la riforma è stata varata con 50 voti a favore su un totale di 96 seggi dalla Camera dei deputati. L’opposizione ha tentato di ostacolare questa operazione, ma il “Frente Amplio”, coalizione di sinistra al governo, ha approvato il disegno di legge; e al Senato i filogovernativi hanno una buona maggioranza. Lo Stato “assumerà il controllo e la regolamentazione” dell’intero ciclo produttivo della cannabis e dei suoi prodotti, dall’importazione dei semi delle piante fino alla commercializzazione della marijuana, che verrà venduta al consumatore attraverso le farmacie.

    Così l’Uruguay, dopo aver depenalizzato l’aborto e approvato, primo fra i paesi latino-americani, il matrimonio fra i gay, è il primo paese al mondo che liberalizza la droga, in modo più ampio di quanto hanno fatto Olanda e California. La storia di questo piccolo paese sud-americano spiega, almeno in parte, questo primato poco appetibile. Vi sono stato nel 1992, invitato per una relazione sul rapporto ecclesiale fra Italia e America Latina, ad un congresso delle Chiese latino-americane. Dall’inizio del Novecento fino a dopo la seconda guerra mondiale, l’Uruguay era definito “la Svizzera del Sudamerica” e “Il paradiso degli emigranti”. Un paese di solida democrazia, senza analfabeti, economicamente prospero, con leggi sociali molto avanzate, più di quelle dell’Europa a quel tempo. Oggi è un popolo deluso, precipitato in basso nella classifica del reddito pro capite, dopo aver occupato i primi posti per più di mezzo secolo. Come per la vicina Argentina, la prosperità dell’Uruguay era basata sulle esportazioni di grano, prodotti della pastorizia e carne di manzo. Dal 1950 in avanti è scoppiata la crisi di questi prodotti, perché Stati Uniti ed Europa hanno cominciato ad essere autosufficienti, tagliando le importazioni. Lo “stato sociale” uruguayano è crollato, aprendo la strada alla guerriglia dei “tupamaros” e ad una crudele dittatura militare (1973-1985).

    Oggi il paese sta riprendendosi, ma nel 1992 ho viaggiato, accompagnato dai missionari italiani OMI (Oblati di Maria Immacolata) fino a Rivera, Tacuarembo, Paso de los Toros, Cardona, Mercedes e Punta del Este, per incontrare missionari italiani e ovunque mi hanno detto che il paese non ha ancora trovato una via autonoma allo sviluppo e attraversa una profonda crisi d’identità, che è anche quella delle ideologie dominanti dall’indipendenza ad oggi: l’ateismo e il socialismo. Va ricordato che l’Uruguay, esteso due terzi dell’Italia con soli 3,5 milioni di abitanti (il 50% dei quali vivono a Montevideo!), è una sconfinata prateria a perdita d’occhio (la “pampa”), con acque e terre fertili ma quasi disabitata. L’Uruguay è nato nel 1828 come stato cuscinetto fra Argentina e Brasile (cioè fra spagnoli e portoghesi) con soli 60.000 abitanti, che alla fine del secolo erano già 600.000 per i molti immigrati dall’Europa spesso scampati alle repressioni delle monarchie europee e della restaurazione dopo la Rivoluzione francese: carbonari, socialisti, repubblicani, radicali, rivoluzionari di ogni genere avevano fatto dell’Uruguay il loro rifugio, fra i quali anche Giuseppe Garibaldi. Questo spiega l’irrequietezza politica del paese, tormentato da numerose guerre civili, e il suo radicalismo progressista e anticlericale.

    All’inizio del Novecento il presidente José Ordònez fonda uno stato politicamente democratico e socialmente avanzato: abolizione della pena di morte (1905), insegnamento e assistenza sanitaria gratuiti, pensione sociale ai nullatenenti sopra i 60 anni, legge sul divorzio favorevole alla donna, il “Codice dei diritti dei lavoratori” (1920) che era considerato un modello dai paesi europei dopo la prima guerra mondiale. Lo “Stato assistenziale” dell’Uruguay ha funzionato bene fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando le esportazioni sono crollate e il paese, pur con forte tradizione socialista e progressista, è rimasto immobile, bloccato dalla mentalità conservatrice e dalla “crescita zero” demografica. Un piemontese, Rolando Passani che ha una piccola azienda tessile, mi diceva: «Quando sono immigrato in Uruguay nel 1953 con moglie e tre figli piccoli, questo paese era molto più avanzato della nostra Italia, politicamente ed economicamente. C’era un’atmosfera di libertà e di vivacità culturale che a me, dopo il fascismo, la guerra e le lotte ideologiche del nostro dopoguerra, mi sembrò straordinaria. Invece, negli anni Sessanta il mondo è cambiato e qui tutto è rimasto immobile, per cui oggi molta gente vive in miseria e senza lavoro».

    In questo panorama, la povertà del popolo uruguayano che più mi ha colpito è quella spirituale. Un popolo scoraggiato, abbattuto, senza speranza e senza gioia di vivere. Oltre alla crisi economica soffre anche una forte crisi di identità nazionale. C’è un aspetto della tradizione e cultura uruguayana che spiega molte cose: l’ateismo e l’anticlericalismo che dominano la cultura e le istituzioni. L’Uruguay è il solo paese dell’America Latina nel quale un buon numero di persone non sanno che il 25 dicembre si celebra il Natale di Gesù Cristo. Infatti nel Calendario nazionale e nelle TV e giornali il Natale è segnato come “La Fiesta de los Ninos”, la Pasqua è “La Fiesta del Turismo”, l’8 dicembre “El dia de la Playa” (Il giorno della spiaggia quando inizia la stagione balneare). Dal 1919 il governo ha abolito i nomi religiosi di città e paesi: Santa Isabel è diventata Paso de los Toros (sebbene gli abitanti continuino a chiamarsi Isabeliti), San José è “Primero de Mayo”; nei giornali Dio si scrive dio, con la minuscola, la Costituzione proibisce tutti i segni religiosi in luogo pubblico. La Chiesa è stata pesantemente penalizzata e oggi la maggioranza della popolazione è senza assistenza religiosa, specie nelle campagne, per mancanza di sacerdoti. Nel 1992 a Montevideo la pratica religiosa, secondo dati ufficiali, era dello 0,5%, però nel censimento del 2011 il 54% degli uruguayani si dichiarano cattolici e il 26% atei.

    Ricordando la mia visita nel 1992, a Mercedes incontro tre suore italiane “Serve della Divina Provvidenza” di Catania, alle quali è affidata una parrocchia di 10.000 abitanti, con un sacerdote che viene a celebrare una Messa alla domenica e nient’altro. «Abbiamo buoni rapporti con la gente – mi dice la superiora Maria Aurelia Ognibene – ci accettano volentieri nelle case. Il nostro lavoro è di visitare tutti, in città e nella campagna per farci conoscere e parlar loro della fede e della vita cristiana. C’è un’ignoranza spaventosa. Ad esempio, a noi chiedono l’assoluzione dei peccati. Della religiosità popolare c’è rimasto solo il battesimo e due o tre processioni l’anno. Non esiste il funerale religioso, mentre è abbastanza comune la Messa per i defunti. Il problema morale è grave. Ad esempio, le ragazze che vanno con uomini anche anziani per poter mangiare tutti i giorni, qui sono considerate come normalità. Manca assolutamente un sacerdote». Da più d’un secolo le forze culturali e politiche dominanti hanno lanciato campagne per creare l’“uomo nuovo” attraverso l’ateismo, insegnato nelle scuole, e il socialismo: «Con la ragione e senza dio avremo un uomo felice» dice uno slogan tradizionale. Fin dall’Ottocento l’Uruguay è stato un paese dominato dalla Massoneria.

    Padre Quinto Regazzoni, dei Dehoniani, mi dice: «Sono in Uruguay da 13 anni e ho visto il fallimento del razionalismo e della modernità senza Dio. Qui la religione è veramente esclusa dalla vita sociale, politica, culturale, scolastica e si vede fin troppo. Lo dimostrano le famiglie disunite: sette matrimoni su dieci finiscono nel divorzio, l’Uruguay ha la più alta percentuale di suicidi in America Latina, dove in genere il popolo è cordiale, gioioso, ride facilmente, mentre in Uruguay c’è molta freddezza. Il paese è demograficamente depresso dall’inizio del Novecento, solo la massiccia immigrazione dall’Europa ha fatto crescere di poco la popolazione». I Dehoniani hanno a Montevideo un santuario della Madonna, frequentato da un buon numero di pellegrini. Mi dicevano che una notte hanno visto un’auto di lusso fermarsi davanti alla Grotta di Lourdes e scendere un uomo e una donna che si inginocchiano davanti a Maria. Un padre va a vedere e si trova davanti ad una delle più alte personalità dello Stato, che gli dice: «Per favore non dica a nessuno che mi ha visto qui. Siamo venuti per chiedere alla Madonna una grande grazia per nostro figlio. Se si venisse a sapere, la mia carriera politica sarebbe finita».

    Questo è quel che ho visto nel 1992, quando la situazione religiosa stava già cambiando in meglio, anche grazie ai due coraggiosi viaggi compiuti da Giovanni Paolo II nel 1987 e nel 1988. Mi dicono che oggi la situazione religiosa sia migliorata. Ma a me basta quel che ho visto nel 1992, per giudicare come si riduce un paese e un popolo di immigrati, figli o nipoti di immigrati (il 40% di italiani!), in maggioranza formato da cattolici battezzati, con scarsa assistenza religiosa e con la cultura e politica nazionale che sono dichiaratamente atee e anticlericali."



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